domenica 27 novembre 2011

psicologia e cinema

CINEMA E PSICOLOGIA
I riferimenti psicologici ormai si trovano un po’ ovunque, ed il cinema certo non fa differenza! Perché andiamo al cinema? Cosa cerchiamo in esso? Cosa ci spinge ad assistere alla visione di una vita che non è la nostra?
Le motivazioni sono molte e i fattori altrettanti, per esempio quello sociale, infatti il cinema è un luogo d’incontro, un luogo dove poter rapportarsi con gli altri. Può essere uno spunto di conversazione, uno scambio di opinioni. L’andare al cinema inoltre comporta il soddisfacimento di un desiderio: vedere una storia d’amore, un’avventura che si conclude bene, una storia che tratta degli ufo sono un modo di esorcizzare la paura e fornire la speranza che in realtà l’amore vero esiste, che un’avventura non si conclude sempre in una tragedia, che in realtà non siamo soli nell’ universo o che semplicemente il bene alla fine trionfa sempre! E’ un modo per darci sicurezza e allontanare, anche se per qualche ora, i fantasmi della nostra vita.
Tra cinema ed individuo si instaura un dialogo che porta lo spettatore ad "entrare" nella pellicola identificandosi nei personaggi, innescando così dei "transferts".
Lo spettatore cerca di trovare nei film situazioni ed emozioni che poi potrà portare "sulla scena" della sua vita così da arricchire e definire la propria identità e il proprio status sociale. Sicuramente l’ utilizzo di tecniche avanzate e la creazione di immagini sempre più spettacolari, l’aiuto dell’ acustica che grazie al Dolby Surround fa sì che coloro che assistono allo spettacolo siano catapultati all’ interno della storia e che vengano aiutati ad avere un maggiore coinvolgimento.
Il cinema assume anche una valenza morale poiché porta colui che guarda a riflettere su temi sociali ed etici che poi rispecchiano problemi che si trovano all’ interno della nostra società.
È interessante ritrovare nei personaggi creati dal cinema un aspetto della struttura della psiche concepita da C. G. Jung (1875-1961), uno dei più grandi pionieri della psichiatria dinamica. L’aspetto in questione è "l’ombra" che è definita da Jung come la somma di tutte quella caratteristiche che il soggetto vuole nascondere sia a se stesso che agli altri, solo che così facendo, cioè tentando di nasconderla, non fa altro che aumentare la sua forza. Nel momento in cui l’ ombra diviene più potente, liberandosi dal giogo della vera personalità commette azioni malvagie senza che questa se ne accorga. Esempi di questo tipo li ritroviamo in molti personaggi cinematografici come Il Dottor Jeckill e Mr. Hide o portando un esempio ancor più recente tratto da Il Signore degli Anelli, il personaggio di Gollum dove la sua vera personalità (Smeagol) viene sopraffatta con prepotenza dall’ombra (Gollum).
Così come le arti permettono di percepire e di venire a contatto direttamente con l’anima, il cinema raggiunge lo stesso obiettivo: narrando eventi immaginati o prendendo spunto dalle realtà. Il cinema si trova ad avere numerose sfaccettature e permette all’individuo di vivere infinite vite, ed è come avere in mano un caleidoscopio e guardare attraverso questo la realtà sempre in modo diverso e da punti di vista differenti.

domenica 20 novembre 2011

L' antipsichiatria in Italia.

L'antipsichiatria di Ermanno Pavesi

1. La psichiatria fra positivismo e reazione al positivismo
Nel Manuale critico di psichiatria Giovanni Jervis scrive: "Con il nome generico di "antipsichiatria" venivano identificate nel decennio '60-70 una serie di tendenze che ponevano in discussione tutti i dogmi della "scienza" psichiatrica tradizionale".
La psichiatria - la specializzazione della medicina che si occupa di disturbi psichici - è una disciplina piuttosto recente, che ha raggiunto una certa autonomia solo nel secolo XIX. La medicina occidentale dall'antichità fino all'epoca moderna aveva inquadrato i disturbi psichici in una visione generale dell'uomo che teneva certamente conto della sua realtà biologica, ma che costituiva un'antropologia di tipo filosofico. Nel corso degli ultimi secoli il progresso medico ha cercato di localizzare la malattia in strutture anatomiche sempre più precise. Questo processo è culminato verso la metà del secolo XIX anche nella nascita della psichiatria positivistica moderna, ben caratterizzata dalla tesi di Wilhelm Griesinger (1817-1868) - da molti considerato come il fondatore della psichiatria moderna di lingua tedesca - secondo cui le malattie mentali sono malattie del cervello. Se fino ad allora le malattie psichiche erano state di competenza dei medici internisti, nasce allora una psichiatria "scientifica" strettamente collegata alla neurologia, che pretende fra l'altro di essere l'unico approccio scientifico ai problemi della vita psichica, patologici e non, ed è critica nei confronti di approcci non positivisti.
Le reazioni a questo riduzionismo non tardano: in alcuni ambienti protestanti tedeschi, per esempio, disturbi psichici vengono fatti rientrare nella competenza della pastorale religiosa, sottolineando anche la possibilità della loro origine demonologica; a cavallo fra i secoli XIX e XX nei paesi di lingua tedesca si diffondono movimenti "alternativi", che criticano lo stile di vita, l'alimentazione e l'abbigliamento della società cittadina e industriale, ne ritengono necessaria una riforma e sostengono che anche le malattie psichiche sono causate da un genere di vita non in armonia con la natura; quindi propongono vegetarismo, naturismo, astinenza dall'alcol e così via, e criticano, a volte in modo molto radicale, la psichiatria del tempo, accusata d'interessarsi soltanto degli aspetti biologici delle malattie.
Una critica radicale alla psichiatria positivista proviene anche dal Surrealismo - movimento culturale e artistico fondato nel 1918 da André Breton (1896-1966) - che, denunciando la cultura ufficiale e i valori della civiltà occidentale, propone pure il superamento della distinzione fra normalità e pazzia fino all'idealizzazione del delirio. Significativa al proposito, e interessante documento "antipsichiatrico", è la Lettera ai primari dei manicomi, comparsa sulla rivista La Révolution surrèaliste nel 1925: "Non solleveremo qui il problema degli internamenti arbitrari, per evitare la fatica di facili dinieghi. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ospiti, perfettamente pazzi stando alla definizione ufficiale, sono stati, anch'essi, arbitrariamente internati. Non ammettiamo che si ostacoli il libero svilupparsi di un delirio che è legittimo, logico tanto quanto qualsiasi altra serie di idee o di atti umani. La repressione delle reazioni antisociali è, per principio, altrettanto chimerica quanto inaccettabile. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale [...].
"Senza insistere troppo sulla natura assolutamente geniale insita nelle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo adatti ad apprezzarle, affermiamo l'assoluta legittimità della loro concezione della realtà e di tutte le azioni che da essa derivano".
Già in questo documento sono presenti diversi temi dell'antipsichiatria: il malato è vittima dell'oppressione sociale e la sua incapacità di conformarsi ai canoni della società viene repressa come reazione antisociale. D'altra parte, la pazzia viene interpretata non solamente come anormalità, ma anche come originalità e genialità che trasgredisce la norma ma che, contemporaneamente, può esprimere lo spirito umano in modo più spontaneo, al di fuori di ogni schematismo convenzionale.

2. Psichiatria sociale e antipsichiatria in Italia
Mentre le forme precedenti di antipsichiatria avevano interessato per lo più solo marginalmente gli specialisti, a partire dagli anni 1960 si sviluppa un movimento antipsichiatrico che coinvolge ampiamente anche addetti ai lavori. Questo movimento, sorto nei paesi anglosassoni, si diffonde progressivamente in tutto l'Occidente dove, pur facendo riferimento ad alcuni autori comuni come Ronald David Laing (1927-1989), David Cooper e Thomas Stephen Szaz, assume forme diverse nei diversi paesi, a seconda delle tradizioni psichiatriche e delle condizioni dell'assistenza nel settore.
Questo sviluppo ha senz'altro numerose cause:
- a partire dagli anni 1950 sono introdotti nella terapia psichiatrica nuovi psicofarmaci, che in certi casi consentono per la prima volta di agire efficacemente contro i sintomi delle più gravi malattie mentali. Queste nuove terapie aprono possibilità di cura fino ad allora inimmaginabili, e ciò comporta una trasformazione radicale della strategia terapeutica, del ruolo di tutti i terapeuti e anche una nuova organizzazione degli istituti di cura, ospedali psichiatrici compresi;
- l'organizzazione psichiatrica esistente non era nella situazione migliore per affrontare questa trasformazione, in parte per ragioni presenti in diversi paesi - generalmente l'assistenza psichiatrica è la Cenerentola del sistema sanitario -, ma anche per motivazioni tipicamente italiane, raramente prese in adeguata considerazione. Lo stesso Jervis sostiene che un'istituzione come il manicomio era un "centro di potere molto rilevante nell'equilibrio della comunità locale, oltre che un campo di manovre clientelari e un serbatoio di voti". L'amministrazione dei manicomi non aveva sempre avuto come obbiettivo primario l'assistenza agli ammalati: "È significativo, a questo proposito - scrive il medesimo psichiatra -, che moltissimi manicomi abbiano un numero enorme - talora superiore a quello del personale addetto a compiti di custodia e curativi - di impiegati e di dipendenti che svolgono compiti marginali o parassitari. Ciò si spiega - ma solo in parte - col clientelismo delle assunzioni". L'arretratezza dei manicomi dipendeva non tanto dalla psichiatria quanto dal clientelismo degli amministratori locali durante la Prima Repubblica e, in certi casi, anche dall'ideologizzazione del personale che, assunto con criteri politici, era talora più propenso a partecipare a una conduzione di tipo assembleare del manicomio che non a prendersi cura dei pazienti in modo professionale.
Il movimento antipsichiatrico denuncia l'arretratezza e il disservizio dell'assistenza psichiatrica, non si limita però a chiederne un adeguamento, ma pretende un mutamento radicale nell'approccio al problema, per esempio con l'applicazione di categorie sociologiche nella diagnosi delle malattie mentali.
Un punto importante è l'interpretazione della malattia mentale come devianza: "La follia - afferma lo stesso Jervis - è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni delle regole del vivere sociale". La diagnosi psichiatrica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed etichetterebbe le persone non corrispondenti a un determinato modello sociale secondo i passaggi: deviante, non normale, anormale, malato. Alla psichiatria spetterebbe quindi una funzione organica al "sistema": farsi carico dei devianti, provvedere al loro ricupero, al loro reinserimento sociale e, nel caso non fosse possibile, garantire la loro esclusione per mezzo dell'istituzionalizzazione. Questi concetti vengono spesso integrati in una concezione marxista, per cui la malattia psichica è conflitto psichico, ripercussione di contraddizioni e di tensioni sociali. Come secondo Karl Marx (1818-1883) la storia è storia della lotta di classe, così, per una psichiatria di orientamento marxista, la storia del malato è una storia di oppressione. Quindi, secondo lo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), "l'unica possibilità che ci resti è di conservare il legame del malato con la sua storia - che è sempre storia di sopraffazioni e di violenze - mantenendo chiaro da dove provenga la sopraffazione e la violenza".
Nella prospettiva dell'antipsichiatria questa storia di violenza comincia all'interno della famiglia per proseguire nella scuola e nella fabbrica: "La famiglia nucleare - sostiene Jervis - è la macchina che costantemente fabbrica e riproduce forza-lavoro, sudditi consumatori, carne da cannone, strutture di ubbidienza al potere; e anche nuovi individui condizionati in modo tale da ricostituire nuove coppie stabili, procreare altri figli, ricreare altre famiglie, e così perpetuare il ciclo. [...]
"Gran parte dei disturbi mentali nascono proprio da queste contraddizioni; la famiglia contemporanea, nel momento stesso in cui comincia a non funzionare più, continua a fabbricare e condizionare dei bambini che le si rivolteranno contro, o che non riuscendo a rivoltarsi diventeranno nevrotici o psicotici; oppure cittadini conformisti, soddisfatti della loro mortale ubbidienza, mediocrità e normalità".
L'antipsichiatria accusa la scienza ufficiale di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche, trascurando l'origine sociale dei disturbi psichici. La pratica psichiatrica sarebbe quindi antiterapeutica in quanto i ruoli psichiatra-paziente riprodurrebbero in forma nuova i rapporti di potere e di sopraffazione alla base dei disturbi da curare.
"Il nuovo psichiatra sociale - scrive Basaglia -, lo psicoterapeuta, l'assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo industriale (per non citarne che alcuni) non sono che i nuovi amministratori della violenza del potere, nella misura in cui - ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle sue istituzioni - non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale".
L'antipsichiatria auspica che lo psichiatra rifiuti il proprio ruolo, sottolinei l'origine sociale dei disturbi psichici e s'impegni nell'eliminazione delle contraddizioni sociali e quindi per la trasformazione della società: sempre secondo Basaglia si deve "[...] continuare a minare - ora attraverso la comunità terapeutica, domani attraverso nuove forme di contestazione e di rifiuto - la dinamica del potere come fonte di regressione, malattia, esclusione e istituzionalizzazione a tutti i livelli".
L'antipsichiatria ha denunciato senz'altro a ragione la scarsa attenzione di alcuni indirizzi psichiatrici verso i fattori sociali coinvolti nell'insorgere di malattie psichiche e rilevanti per il loro decorso, ma ha portato a eccessi e all'ideologizzazione del problema della malattia mentale. Per esempio, non è accettabile il concetto molto vago di violenza come trauma all'origine di disturbi psichici, che, nel caso della famiglia, può indicare non solo violenze vere e proprie, come abuso sessuale o maltrattamenti, ma anche solo l'educazione impartita da genitori che svolgono seriamente la loro funzione. La famiglia in sé diventa, in questa prospettiva, un'"istituzione della violenza".
Il movimento antipsichiatrico ha ispirato anche la legge n. 180 del 1978, nota come Legge Basaglia, che ha abolito gli ospedali psichiatrici e ha così impedito di trovare una soluzione al problema della degenza psichiatrica. Il sospetto di fondo nei confronti della pratica e della terapia psichiatriche non permette la progettazione di strutture atte alla cura e alla riabilitazione di malati psichici, in quanto un intervento di questo tipo viene considerato una forma di esclusione, di colpevolizzazione e di punizione del paziente.
Per approfondire: vedi la storia del movimento antipsichiatrico, in Bruno Callieri, voce Psichiatria, in Enciclopedia del Novecento, vol. V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1980, pp. 748-777 (pp. 765-767); l'ideologia, in Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, 2a ed., Feltrinelli, Milano 1975; e in Franco Basaglia (a cura di), L'istituzione negata, 7a ed., Einaudi, Torino 1974.

sabato 19 novembre 2011

Modifiche Date Tutoraggio Di Metodologia Della Ricerca Psicologica E Di Psicologia Dinamica

Modifiche Date Tutoraggio Di Metodologia Della Ricerca Psicologica E Di Psicologia Dinamica 

Causa motivi personali, le date del tutoraggio di metodologia della ricerca psicologica e di psicologia dinamica che si svolgo a PA.T.O.S., per la settimana prossima subiranno delle variazioni ( poi fare riferimento sempre al calendario orari e date affisso in bacheca e sulla porta ). le date per la prossima settimana sono:

22/11/11, dalle ore 11 alle ore 12 = Psicologia Dinamica;
23/11/11, dalle ore 11 alle ore 12 = Metodologia della Richerca Psicologica.

lunedì 14 novembre 2011

Le parole ritrovate

il Centro Congressi Frentani di Roma, dove si svolgerà l’Incontro Nazionale de Le Parole Ritrovate, per presentare la proposta di Legge 181 frutto di anni di esperienze di fareassieme e buone pratiche nella salute mentale che si svolgono in tutta Italia. Non stò a sottolineare l’importanza dell’evento e la necessità di essere presenti per mostrare come utenti familiari ed operatori della salute mentale
possono dare un contributo essenziale a salvaguardare quel servizio pubblico che in questi difficili momenti che sta attraversando il Paese, subisce reiterati attacchi, sotto forma di tagli indiscriminati di risorse, che rendono difficile la sua sopravvivenza. Sarà un momento di incontro e di confronto dal quale dovrà uscire una Psichiatria Italiana di Comunita, già vanto del nostro Paese nel Mondo per come l’aveva disegnata Franco Basaglia con la Legge 180, ancora più forte e più moderna, che prende atto di una società che cambia, che è più attenta e più consapevole dei propri diritti
Roma, sabato 3 dicembre 2011.
http://www.leparoleritrovate.com/wp-content/uploads/2011/11/roma-412.pdf

°NOTA: il sottoscritto pensa di esserci, se vogliamo partire insieme fate sapere.

domenica 13 novembre 2011

Peppe Dell'Acqua, Da Basaglia a oggi

Peppe Dell'Acqua, Da Basaglia a oggi


Le idee, gli interrogativi, le pratiche che sostennero il lavoro di apertura di Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico a Gorizia, di Carlo Manuali a Perugia, di Sergio Piro a Materdomini, in provincia di Salerno, avviarono, a partire dai primi anni ’60, una stagione di straordinari cambiamenti.
Era il 1968 quando il governo di centro sinistra sulla spinta di quelle esperienze varò la "legge Mariotti", che omologava il manicomio all’ospedale civile, introduceva il ricovero volontario, avviava un processo di radicale cambiamento legislativo che si concluderà dieci anni dopo.
Il cambiamento era sostenuto da scelte di campo e pratiche concrete. Le porte aperte, la parola restituita, l’ingresso nel mondo reale animarono la paziente "lunga marcia attraverso le istituzioni" che quella impensabile apertura aveva tumultuosamente avviato.
Basaglia quando entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia, di fronte alla violenza e all’orrore che scopre è costretto a chiedersi angosciato «che cos’è la psichiatria?». Da qui l’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico, del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita il manicomio, le culture e le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: "il malato e non la malattia".
I malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini. Entrano sulla scena con la loro singolarità, la diversità e i bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro della malattia. "Messa tra parentesi la malattia", si scopriva la possibilità di vedere la malattia stessa ora in relazione alle persone e alla loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà. La libertà intesa come possibilità di desiderare, di scoprire i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di attraversarla e costruire le infinite e minime declinazioni per renderla accessibile.
La legge 180 non è altro che questo. Non è più lo stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non più il malato di mente «pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo», ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale.
Cambiamenti legislativi, culturali, istituzionali hanno restituito la possibilità ai malati di mente di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire.
Entrano in scena i soggetti
Da quel momento il campo del lavoro terapeutico è davvero cambiato. Esistono oggi associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria storia, raccontano le loro svolte, vogliono vivere malgrado la malattia; sono presenti sulla scena associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, al silenzio, a sentirsi colpevoli.
Se si pensa alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale si scoprono le molteplici opportunità di cui dispongono oggi le persone con disturbo mentale. La cooperativa sociale come luogo per formarsi, per entrare nel mondo del lavoro, per riprendere un ruolo sociale e un posto in famiglia. Qui si incontrano uomini e donne che lavorano, che guidano l’automobile, che hanno figli, che vivono con serenità nella loro famiglia, che si scommettono quotidianamente nella normalità e nella fatica delle relazioni.
La legge, malgrado ostinate resistenze e un percorso in molte regioni lento e faticoso ha dimostrato che è possibile cambiare e in tanti luoghi si sono realizzate profonde trasformazioni e radicate le buone pratiche. Ma non a tutti i cittadini del nostro paese e non dovunque è garantita la possibilità.
Le mura della medicalizzazione
Benché l’inclusione sociale sia una priorità per tutti i paesi europei e la legge italiana abbia aperto spiragli di formidabili possibilità, persistono le cattive pratiche: scandalosi abbandoni, inspiegabili violenze, sottrazioni, abusi. Cattive pratiche che oggi è possibile svelare grazie al cambiamento di scena prodotto proprio dalla legge.
Trent’anni dopo, in altri termini, con in campo esperienze, competenze e risorse, il problema rimane: che cosa si fa per permettere alle persone di vivere veramente le possibilità che ora sono alla loro portata?
Si fa poco. Le persone rischiano di nuovo di essere rinchiuse dentro mura ancora più spesse di quelle del manicomio. Sono le mura costruite dalla forza del modello medico e dal ritorno prepotente di una psichiatria che vede solo malattia, che fonda la sua credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sull’industria del farmaco, su fondamenti disciplinari quanto mai incerti e controversi. Questa psichiatria è tornata nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri blindati, nelle affollate e immobili strutture residenziali, in comunità senza tempo che si dicono terapeutiche e che si situano fuori dal mondo delle relazioni, nei Centri di salute mentale vuoti e ridotti a miseri ambulatori. È tornata con la falsa promessa della medicina, alleata alle psicologie più svariate, con la rinnovata chimera del farmaco e in alcune parti d’Italia, poche per fortuna, dell’elettroshock.
Non a caso le ultime proposte di modifica della legge 180 si muovono in questa direzione. Si argomenta, per esempio, che l’approccio definito spontaneistico alla malattia mentale determinato dalla riforma deve lasciare il posto a un approccio che faccia appello alle certezze del modello medico-scientifico. Propongono adeguate strutture di cura "ad alta protezione" e procedura più restrittive, più rapide e meno garantite di obbligatorietà alla cura. La malattia mentale si definisce come disturbo grave, con poche speranze di guarigione, fonte di disagio in famiglia e nella società, potenzialmente pericolosa, da trattare in unità ospedaliere e in residenze protette. L’invalidazione totale della persona sofferente nelle sue capacità cognitive, affettive e sociali consegue inevitabilmente.
Preoccupano le culture e le pratiche che derivano da questi modelli, psicologici o biologici che siano. I farmaci, per esempio, leniscono il dolore, attenuano i sintomi, aiutano a stare nelle relazioni, sostengono percorsi di ripresa. Ma quando il "modello farmacologico" pretende di spiegare le emozioni, la creatività, i sentimenti, le passioni, le paure, sottrae significato, riduce. Medicalizza la vita. I farmaci finiscono per impedire allo psichiatra di vedere la persona che ha davanti. Basaglia amava ricordare le parole di Ernst Toller. Il drammaturgo tedesco, morto suicida a 40 anni dopo l’esperienza del manicomio, aveva scritto che «lo psichiatra è un uomo che ha occhi ciechi e orecchie sorde».
Servizi diffusi e cattive pratiche
Malgrado la persistenza di queste culture la riforma ha fatto il suo corso. Le ricerche condotte negli ultimi 7 anni dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS) sulle strutture residenziali, sui Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) e sulle cliniche private e sui Centri di salute mentale (CSM) sembrano confermare clamorosamente il percorso positivo di cambiamento avviato nel ’78. Le indicazioni del secondo progetto obiettivo nazionale per la tutela della salute mentale sono state in buona misura realizzate, i Dipartimenti e le strutture per la salute mentale sono diffusi in tutte le regioni, sono presenti 285 servizi ospedalieri per acuti (SPDC) con circa 3.000 posti letto; strutture residenziali in tutto il territorio nazionale che ospitano circa 17.000 persone. Anche il dato relativo alla presenza dei CSM sembra essere confortante: un CSM ogni 80.000 abitanti, 14.000 addetti, orari d’apertura che sembrano sempre più dilatarsi.
Ma come vengono utilizzati servizi e programmi? Come si dispongono all’accoglienza ? Come e quanto sono attraversabili?
Il problema ancora una volta sono le pratiche.
Forse non tutti sanno che 200 Servizi di diagnosi e cura su i 285 totali dichiarano di attuare la contenzione meccanica e di usare un camerino di isolamento. Evitabili e inutili maltrattamenti se si pensa che i rimanenti 85 SPDC dichiarano di non si ricorre mai alla contenzione.
Dai dati della più recente ricerca (2003) condotta dall’Istituto Superiore di Sanità risulta che nell’unità di tempo, nei 3 giorni fissati per la rilevazione sul campo, in 3 su 10 degli SPDC visitati, c’era almeno una persona legata. Fino a 4 contemporaneamente in alcuni. Gli uomini molto di più che le donne, gli immigrati più dei locali. In uno a essere legata era una ragazzina di 14 anni. Dimenticati quotidiani crimini di pace che svaniscono nel grigiore dei luoghi comuni. Nei reparti di neuropsichiatria infantile, a Monza come a Torino per esempio, bambini tra i 9 e 14 anni vengono legati al letto e trattati con dosi eroiche di psicofarmaci. Malgrado la disponibilità ormai diffusissima di educatori, accompagnatori, volontari.
Soltanto negli ultimi 2 anni almeno 5 persone sono morte legate ai letti a causa dell’immobilità dovuta alla contenzione e delle dosi massicce di psicofarmaci. In ricche, civili e insospettabili città, al sud come al nord.
Tutti affermano che bisogna abolire la contenzione ma sono costretti, dicono loro malgrado, dall’incontenibilità del paziente, dalle carenze organizzative, dalla povertà delle risorse a calpestare la dignità della persona e l’inviolabilità del suo corpo. Quasi che un gesto così rischioso, antiterapeutico e dannoso si potesse giustificare come stato di necessità permanente ed essere infine accettato come routinario atto medico.
In tutti i DSM dove i servizi ospedalieri di diagnosi e cura lavorano a porte chiuse, sono sovraffollati ed è più che evidente il fenomeno della "porta girevole", sono carenti i servizi territoriali e aperti per fasce orarie insufficienti. Cresce la domanda di residenze dove collocare i "nuovi cronici".
La persistenza del modello medico che vede da una parte la "crisi" e dall’altra la "cronicità", condiziona così la crescita dei servizi di salute mentale, delle comunità terapeutiche, delle cooperative sociali. La crisi si colloca in ospedale, negli SPDC o, come in alcune regioni, in cliniche private. La cronicità sedimenta nelle strutture residenziali, negli istituti pubblici e religiosi, nei centri diurni infantilizzanti, nelle pratiche assistenzialiste di fragili cooperative sociali.
La miseria vergognosa dell’istituto Giovanni XXIII con più di 300 ricoverati a Serra d’Aiello in Calabria è solo la più drammatica evidenza di un sommerso invisibile. E invisibili sembrano gli istituti e la pletora delle residenze nel sistema lombardo coi suoi diagnosi e cura blindati dal Niguarda di Milano, a Bergamo, a Brescia. Solo Mantova lavora a porte aperte e dimostra che è possibile fare diversamente, anche in Lombardia. E invisibili sono le cosiddette comunità riabilitative e terapeutiche in Sicilia con 40 posti letto. Molte sono gestite dal privato mercantile. Solo a Catania si contano più di 700 posti in comunità di questo tipo. Invisibile, fuori controllo, la quantità di denaro pubblico che viene impegnato in questi affari. Le rette vengono pagate per letti occupati, le persone non vengono mai dimesse. Almeno fino a quando si presenti un altro da ricoverare. Invisibili le condizioni, in genere tristissime e senza futuro, di migliaia di persone che in questi luoghi sono costrette.
Il territorio disabitato e il "manicomio rete"
Tra crisi e cronicità si crea il vuoto, un abisso. Come se la vita delle persone non potesse esistere al di fuori di queste definizioni. "Acuto e cronico" finiscono per determinare i percorsi di cura e servizi frammentati e incoerenti. I Centri di salute mentale pensati come luoghi privilegiati della presa in carico territoriale restano vuoti, le comunità residenziali diventano terminali del fallimento terapeutico. Le cooperative luoghi di intrattenimento.
Mancate risposte, discontinuità, assenze, contenzioni, costringono progressivamente le persone verso le periferie delle nostre città, del nostro sguardo e della nostra anima. E una volta messe al margine attraverso passaggi che pure sono evidenti e ricostruibili, fanno fatica a rimontare. Così dal diagnosi e cura, all’associazione di volontariato, al carcere, alla cooperativa sociale, all’ambulatorio, alla comunità residenziale si costruisce un circuito senza fine. Questi passaggi cominciano da un punto qualsiasi del circuito, incontrano fragili attenzioni, frammentarie prese in carico, rotture e ricoveri, isolamento e trasgressioni, stazioni ferroviarie e stazioni di polizia, servizi ambulatoriali territoriali trasparenti, incapaci di trattenere, servizi sociali burocratizzati. Ogni stazione di questo circuito offre una risposta relativa alla sua competenza, una risposta parziale. Tutti rispondono per un pezzo. Il problema, il bisogno complessivo della persona resta inascoltato. Tutti hanno assolto al loro compito, nessuno ha mancato. La persona con la sua domanda continua a girare sempre più muovendo verso la periferia.
Il territorio abitato e le "opportunità" della rete
Per fortuna oggi si possono raccontare molte storie differenti. Storie di persone, sempre più numerose, che malgrado la severità della loro malattia mai hanno subito restrizioni e mortificazioni. Hanno potuto attraversare Centri di salute mentale orientati alla guarigione, capaci di accogliere e accompagnare nel percorso di ripresa fino a trovare la propria strada. Alcune esperienze esemplari e pratiche diffuse in tutto il territorio, hanno dimostrato che è possibile non fare danni e costruire percorsi terapeutici efficaci e nuove opportunità di partecipazione per le persone, i familiari, i cittadini coinvolti.
La scelta che privilegia il territorio, le reti, la prossimità, la domiciliarità contrasta di fatto il modello medico. Anche la rottura relazionale, la crisi dolorosa, quando non espulsa dal contesto, assume il significato di un evento storico che ritorna sempre alla storia del soggetto. Il Centro di salute mentale (aperto 24h), non più l’ospedale (crisi) e le residenze (cronicità), diventa la struttura organizzativa forte che orienta la domanda e sostiene il lavoro terapeutico-riabilitativo a fianco della vita reale delle persone. In molte regioni ormai sono presenti reti di servizi di salute mentale ben articolati e integrati che operano sulle 24h, 7 giorni su 7.
Le esperienze di questi anni hanno mostrato quanto la malattia, la clinica in una parola, si mette alla prova proprio nella dimensione territoriale. Il lavoro che bisogna fare per incontrare le persone si situa proprio in quello spazio aspro e tesissimo tra la clinica e il territorio, i luoghi delle persone, i contesti, le relazioni.
Quanto più si riconosce il territorio come luogo del lavoro terapeutico, della riabilitazione, dell’inclusione, tanto più si colloca in questa dimensione la clinica e la malattia assume una diversa visibilità. Non può che essere in relazione alla persona.
Si scopre il bisogno di inventare "istituzioni" capaci di garantire la permanenza delle persone nel contratto sociale e fronteggiare il rischio di marginalizzazione. Sistemi di servizi e dislocazioni di risorse in grado di reggere alle nuove scommesse: la "presa in carico", la continuità delle cure, il sostegno alla famiglia, i percorsi di formazione e di inserimento lavorativo, la cooperazione sociale, il sostegno a tutte le forme dell’abitare. I percorsi di guarigione.
Luoghi di cura, luoghi di transito
Il Centro di salute mentale laddove ha assunto una funzione forte e ordinativa, tende a diventare un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l’incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai "folli". Un luogo che progetta, costruisce e cura un "dentro" senza mai perdere di vista il "fuori". Tra il Centro di salute mentale e il territorio si disegna una soglia che definisce lo spazio dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia. Il Centro come passaggio, confine, attraversamento che si dispone instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e la anormalità, tra il regolare e l’irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell’ozio e gli spazi dell’attività.
Un luogo che contrasta il rischio della sottomissione e dell’assoggettamento così presente quando ricorre l’esperienza della malattia. Un luogo dove le persone, senza la paura del confine che si chiude alle loro spalle, possono entrare per dire il proprio male, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno.
In questi anni è stato possibile dimostrare che "il folle" può essere curato in un altro modo. I Centri di salute mentale, lì dove sono attivi e presenti quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le cooperative sociali, lì dove veramente sono in grado di stare sul mercato e produrre lavoro; le associazioni di persone con disturbo mentale e dei familiari, lì dove veramente alimentano protagonismo e partecipazione; i luoghi dell’abitare ed i laboratori, lì dove davvero si coltiva il valore della relazione, la bellezza degli spazi e degli oggetti, la qualità dei lavori e delle produzioni dimostrano che è possibile curare senza contenzioni, con le porte aperte, con programmi riabilitativi personalizzati, con percorsi di formazione e di inserimento lavorativi reali, con il coinvolgimento nel lavoro terapeutico dei familiari, con il sostegno puntuale, anche economico, della vita quotidiana, con la possibilità per le persone di abitare diverse e plurali identità. Con la possibilità di guarire.
Si può fare
Tutti sanno che si può fare. Il problema è che nessuno sembra interessato a conoscere, veramente, come si può curare in un altro modo. Sono pochi gli studi in Italia sul tema della salute mentale territoriale e quasi del tutto assenti negli ultimi 10 anni.
Ignac Semmelweis diventerà matto. Egli ha intuito che le puerpere muoiono di più in ospedale che a casa propria. La moria di giovani donne è drammatica nell’ospedale di Vienna. Accerta che i medici che assistono le partorienti non si lavano le mani e si avvicinano a esse dopo essere stati in sala settoria. Con una dimostrazione rudimentale ma molto efficace cerca di dire ai suoi colleghi che bisogna lavarsi le mani, magari con un po’ di calce. Nel suo reparto le donne non muoiono. I grandi luminari viennesi non possono credere alle dimostrazioni del medico di Budapest. Non ci sono le evidenze dicono. Si rifiutano di riconoscere un altro modo per affrontare la moria delle puerpere.
Semmelweis insiste, viene cacciato, torna a Budapest e muore in manicomio. Dopo la sua morte la sua scoperta viene riconosciuta.
Oggi abbiamo più che mai bisogno di un Semmelweis e con testardaggine rischiare di diventare matti per affermare che "un altro modo" di curare è possibile.
Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale
Trieste, febbraio 2009.

Bibliografia
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Stein, L. & Santos, A. B. (1998) ‘Assertive community treatment of persons with severe mental illness’. New York: Norton & C.
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Warner, R. (2000) ‘The environment of schizophrenia. Innovations in practice, policy and communications’. London and Philadelphia: Brunner-Routledge.
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lunedì 7 novembre 2011

Psicologia dello sport.

Psicologia dello sport.

La psicologia dello sport è la disciplina che studia gli aspetti psicologici, sociali, pedagogici e psico-fisiologici dello sport.
Per definizione e necessità essa trae ispirazione e contenuto da molteplici discipline che vanno dalla medicina alle scienze motorie, ma ha trovato negli anni un suo preciso e definito percorso di ricerca e di intervento.
Inizialmente la psicologia dello sport cercò di stabilire delle relazioni significative fra personalità e sport, utilizzando soprattutto strumenti diagnostici provenienti dalla psicologia clinica, ma successivamente si è specializzata nell'ambito della preparazione mentale e sulle abilità che possono essere incrementate nello sportivo, vale a dire l'attenzione, la concentrazione, la motivazione, la gestione dello stress e dell'ansia ed altro.
Lo psicologo dello sport è un dottore in psicologia (più spesso ad indirizzo clinico o del lavoro) che mette a disposizione le sue conoscenze presso Federazioni, Enti, Palestre, Associazioni e si dedica alla formazione, tramite interventi individuali o di gruppo, dello staff dirigenziale, degli arbitri, degli allenatori, istruttori, degli atleti di sport individuali o di squadra.
Lo psicologo non è un tecnico, quindi non eroga servizi concernenti consigli o strategie tecniche e tattiche, ma riveste un ruolo ben definito: quello di esperto di tematiche psicologiche e psico-pedagogiche nei confronti di tutti i membri della Società sportiva. Lo psicologo dello sport si occupa in particolare di: allenare e potenziare le abilità mentali degli atleti, fra cui annoveriamo in particolare l'abilità di rilassarsi,di visualizzare, di porsi degli obiettivi, di mantenere la propria motivazione, di gestire l'ansia da prestazione. La psicologia dello sport sta dando un enorme contributo alla comprensione del ruolo dello sport nello sviluppo dei bambini, evidenziando come dedda rappresentare un'esperienza divertente, di crescita e consapevolezza del proprio corpo, dello stare bene con se stessi e gli altri (compagni di squadra e allenatore). Le principali competenze dello psicologo sportivo sono: il goal setting (formazione corretta degli obiettivi di prestazione e di risultato); allenare a gestire le emozioni; allenare alla visualizzazione del percorso e dei gesti motori dell'atleta; migliorare l'autostima dell’atleta; proporre strategie per la gestione dell'attivazione psicofisica dell'atleta; studiare e potenziare gli stili attentivi dell'atleta; lavorare sul self talk (dialogo interno) positivo e negativo; diagnosticare disturbi alimentari (DCA) sport-specifici; diagnosticare psicopatologie sport-specifiche come la nikefobia, l'ansia da prestazione o la sindrome del campione; analizzare il gesto motorio con videoregistrazioni; informare ed intervenire sull'abuso di sostanze dopanti e stupefacenti; informare ed intervenire sull'uso improprio di farmaci antidolorifici negli atleti infortunati; offrire consulenza sul dolore, depressione, perdita e suicidio negli atleti; offrire consulenza sull'overtraining e sul burn out negli sportivi; offrire consulenza sulla gestione della grinta e dell'aggressività in relazione allo sport; intervenire sull'infortunio sportivo e sul processo riabilitativo; seguire i passaggi di categoria e i cambiamenti nella vita dello sportivo; favorire il team spirit; favorire la gestione della coesione di squadra; analizzare e sviluppare la leadership di atleti ed allenatori; sviluppare le competenze relazionali dell'allenatore; sviluppare la sportività (fair play) negli atleti; offrire consulenze di parent training ai genitori.
Storia.
Che la mente possa influire significativamente su ogni attività umana e, quindi, anche su quella sportiva è stato certamente chiaro fin dai primi Giochi Olimpici ateniesi. il destino di una competizione sportiva non dipendeva esclusivamente dalla prestanza fisico-atletica, ma anche dall'astuzia, dalla strategia, dal coraggio, dallo stato d'animo, caratteristiche, quest'ultime, strettamente legate all'attività mentale dell'atleta. Nonostante ciò solamente intorno al 1890 alcuni educatori hanno espresso le loro opinioni sugli aspetti psicologici dell'educazione fisica. Norman Triplett nel 1897 effettuò i primi studi sulla performance in situazioni di agonismo. la psicologia dello sport iniziò ad entrare nelle università, con l'istituzione di master, dottorati e corsi di specializzazione. Tra il 1970 ed il 1980 furono condotti studi sul miglioramento della performance, sulla personalità dell'atleta e sulla motivazione. Negli anni ottanta si studiarono tecniche mirate al miglioramento della prestazione. Nel 1993 fu pubblicata la prima edizione di Handbook of Research on Sport Psychology da Singer e colleghi in cui erano raccolte le ricerche più significative pubblicate fino ad allora. "Dalla prima pubblicazione di questo manuale, vi sono state molte evoluzioni, segno di maturità. Negli ultimi vent'anni (1989) hanno preso poi piede gli studi di psicologia clinica dello sport grazie ai lavori di C.Ravasini-G.Lodetti( Aspetti psicoanalitici dell'attivita sportiva ed.Ghedini) La psicologia clinica dello sport si occupa degli aspetti clinici e di crescita globale della personalità dello sportivo e dell'abbattimento del disagio giovanile attraverso le dinamiche sportive di interazione.

domenica 6 novembre 2011

La Psicologia dello sviluppo

La psicologia dello sviluppo studia l'evoluzione e lo sviluppo del comportamento umano, dalla nascita alla morte. Si differenza della psicologia dell'età evolutiva, la quale prende in considerazione solo lo sviluppo del bambino.Non è una disciplina applicata, ma è stata oggetto di discussione per molti secoli. Lo sviluppo dipende, nella maggior parte dei casi sia da fattori biologici che da fattori ambientali, ma è ancora da stabilire in quale misura essi abbiano peso. Per fattori biologici si intende l'insieme del patrimonio genetico che influenza lo sviluppo psico-somatico dell'individuo e le sue future competenze.
Le tre domande
La psicologia dello sviluppo tenta di dare una risposta a tre domande fondamentali: "Quando", "Come" e "Perché".Quando: esistono delle traiettorie comuni che, in assenza di patologie, ogni individuo, nell'infanzia, percorre fino a giungere a tappe di sviluppo ben precise. È assodato che alcune abilità o competenze (come per esempio il linguaggio) vengano sviluppate entro finestre temporali e sequenze ben precise (dalla lallazione). Scopo della psicologia evolutiva è trovare queste tappe di sviluppo comuni a tutti gli individui.Come: seguire il progresso di ogni singola competenza degli individui e studiarne i meccanismi di sviluppo. Esistono due diversi tipi di differenze tra le abilità degli individui: le differenze di ritmo (diversi periodi di apprendimento per le stesse abilità) e di stile (per esempio, nel linguaggio, apprendere più velocemente vocaboli o più la sintassi). L'ambiente esterno ha una notevole influenza sull'ordine di apprendimento delle competenze.Perché: cerca e spiega i processi che stanno alla base di ogni competenza, distinguendo ancora una volta tra fattori genetici e ambiente esterno.
Sviluppo e maturazione
Lo sviluppo è un cambiamento incrementale e si compone di due fattori principali: la maturazione e l'apprendimento. Per maturazione si parla della modificazione innata della specie, mentre per apprendimento si intende l'insieme di esperienze vissute dall'individuo. Premesso che le tappe maturative nei bambini sono uguali in tutto il mondo, si può affermare che entro l'adolescenza lo sviluppo cerebrale si porta al termine. A questo punto, un certo numero di abilità vengono dimenticate, pur mantenendo una certa plasticità (possibilità di imparare nuove abilità nel corso del tempo). Allo sviluppo si contrappongono cambiamenti decrementali come il Deterioramento, la Perdita, il Declino e la Regressione. Durante lo sviluppo possono verificarsi dei fenomeni assimilabili alle perdite (es. Audiomutismo Fisiologico), ma che in realtà fanno parte della maturazione del soggetto. I traumi possono condurre a delle regressioni a periodi dello sviluppo precedente (fissazioni).
Fasi dello Sviluppo
  • Periodo prenatale
  • Infanzia (da 0 a 2 anni): neonato, infante, toddler (primi passi)
  • Prima Fanciullezza (da 2 a 7 anni): Periodo Preoperatorio
  • Seconda Fanciullezza (da 7 a 11 anni): Periodo operatorio
  • Pre-adolescenza (da 11 a 13 anni): Periodo operatorio formale
  • Adolescenza (da 13 anni a indipendenza economica)
Metodi di osservazione
Esistono diversi metodi di osservazione dei soggetti nell'ambito di sviluppo. Tra questi, i principali sono:
  • Osservazione naturalistica: i soggetti vengono osservati nei loro luoghi di vita quotidiani (casa, scuola, luogo di lavoro, eccetera). L'osservatore dev'essere acuto (misurando solo ciò che interessa misurare) e privo di pregiudizi. Questo tipo di osservazione è particolarmente utile per soggetti giovanissimi e permette di valutare la normalità di un contesto, ma si corre il rischio che la presenza dell'operatore influenzi alcuni comportamenti dei soggetti.
  • Osservazione strutturale: viene eseguita in ambienti standardizzati come, per esempio, laboratori di ricerca. Si possono osservare comportamenti rari, di limite e socialmente indesiderabili; tuttavia, i soggetti possono sentirsi "sotto esame" e, quindi, trattenersi in qualche modo da un comportamento normale.
  • Osservazione psico-fisiologica: vengono rilevate caratteristiche fisiologiche (dette anche "percorsi psicologici"), come battito cardiaco o il funzionamento cerebrale, collegati con determinati aspetti psicologici. È utile per valutare operazioni mentali in soggetti incapaci di verbalizzare (per esempio nei bambini piccoli), tuttavia alcune risposte fisiologiche possono essere ricondotte o causate da fattori diversi.
  • Osservazione nel "Real World": è il metodo più difficoltoso per studiare gruppi di soggetto, poiché molte variabili non possono essere controllate, si possono studiare solamente differenze tra gruppi diversi e non c'è assegnazione casuale.
Il disegno correlazionale
In psicologia è utile pensare che alcuni fenotipi (aspetti psicologici, nel nostro caso) vanno di pari passo, ovvero sono in qualche modo legati fra loro. Per fenotipo si intende tutto ciò che può essere misurato, mentre il genotipo è l'effettivo corredo cromosomico che può anche non essere espresso (Vedi anche la parte di Genetica).Uno strumento efficace per misurare il grado di correlazione tra due (o più) fenotipi è la correlazione. La correlazione è un concetto matematico che si esprime mediante una costante, detta costante di correlazione r, il cui valore varia da -1 a +1. Per valore assoluto tendente a zero, si indica che due (o più) aspetti correlano poco tra loro e, viceversa, per valore assoluto tendente a uno, si indica che due (o più) aspetti correlano molto fra loro. Il segno del valore del coefficiente di correlazione indica il tipo di proporzionalità che c'è fra le variabili esaminate: se positivo si tratta di proporzionalità diretta, se negativo si tratta di proporzionalità inversa. In psicologia, si usa questo operatore perché spesso i fenotipi tendono a manifestarsi insieme.Va precisato che le misurazioni possibili in uno studio di correlazione possono essere di due tipi:
  1. Si misurano due (o più) variabili nello stesso momento e si valuta di quanto esse correlano;
  2. Si misura una sola variabile in due (o più) momenti diversi e si valuta di quanto questa varia nel tempo.
Un particolare tipo di correlazione è la regressione, in cui ogni variabile indipendente è correlata con quella dipendente attraverso un coefficiente che ci dice il grado di correlazione tra le due variabili.Si parla anche di significatività per indicare la percentuale di probabilità di trovare lo stesso fenotipo in un'altra popolazione.Il limite maggiore di uno studio correlazionale è l'impossibilità di stabilire il verso della correlazione, ovvero quale variabile causi l'altra. Per questo motivo, si tende ad utilizzare altri metodi per stabilire come siano questi legami causa/effetto, per esempio mediante il disegno sperimentale in laboratorio.
Il disegno sperimentale in laboratorio
Il disegno sperimentale in laboratorio è un metodo di ricerca che consiste nel
  1. misurare una variabile d'interesse;
  2. somministrare una variabile di laboratorio;
  3. misurare gli effetti sulla variabile d'interesse dopo l'esperimento.
I trattamenti somministrati ai soggetti rappresentano la variabile indipendente, mentre le reazioni dei soggetti, presumibilmente causate dalla variabile indipendente, rappresentano quella dipendente. Se l'esperimento è privo di fattori disturbanti e interferenze, questo tipo di indagine permetterebbe di risalire alla relazione di causa/effetto tra le due variabili in esame. È di vitale importanza l'assenza di altri fattori che potrebbero influire sul risultato finale (sulla variabile dipendente nello specifico) e per ridurre questo rischio i campioni vengono assegnati casualmente (o "in cieco").
Metodi di Studio
Si sono formate diverse scuole di pensiero sul metodo di studio più corretto per valutare le diverse fasi dello sviluppo.
Il metodo introspettivo è stato presto abbandonato perché vi era confusione tra soggetto ed oggetto. Il metodo elettroencefalico ha fornito maggiori informazioni sulla corrispondenza fra diversi stati comportamentali e il relativo andamento elettrochimico del cervello.
Le tecniche comportamentali vere e proprie sono:
  • Movimento Oculare
  • Preferenza visiva: basato sull'esposizione ripetuta a coppie di immagini, si osserva quale il bambino preferisce.
  • Risposte condizionate: si fonda sulla precoce capacità di apprendimento per condizionamento per studiare lo sviluppo auditivo.
  • Abituazione e Disabituazione: alla ripetuta esposizione ad un certo stimolo, grazie alla memoria cellulare si crea un legame più forte tra due neuroni.
Studio di un fenotipo nel tempo
Lo studio dello sviluppo degli individui deve tenere conto dell'evoluzione continua dell'organismo, cercando di suddividerla in base a criteri rappresentativi. Occorre quindi scegliere un'unità di misura temporale che tenga conto dell'insieme di caratteristiche, comportamenti ed intenzioni di un dato periodo (quadro normativo). Una volta definite le caratteristiche di una fase sarà possibile descrivere il livello di abilità medio, il discostamento della popolazione da questo livello e, di conseguenza, la variabilità normale. Se ad esempio parliamo della Fase delle 50 parole, possiamo presumere che i bambini a questa età produrranno un numero di parole variabile (presumiamo) tra le 35 e le 70, mentre un numero di parole più basso può indicare un'anormalità.
Se le fasi sono ordinate gerarchicamente e sono universali si parla di stadi.
I metodi per studiare un certo fenotipo in momenti diversi sono:
  • Studio Cross-Sectional: vengono somministrati dei test a gruppi eterogenei di persone di età diverse presi nello stesso momento, tenendo conto delle differenze, per esempio, di età. Si sviluppa, in particolare, un effetto detto di coorte, che si basa sul presupposto che se le tappe di sviluppo sono vicine, ci si aspetterà la presenza di differenze dovute al gruppo di appartenenza mentre se le tappe di sviluppo sono lontane, ci si aspetterà la presenza di differenze dovute a fattori culturali. Questo sistema è particolarmente veloce ed economico, tuttavia non permette di guardare le stesse persone nel tempo. Questo tipo di effetto costituisce poi un ulteriore modalità di osservazione, basata sullo studio di un gruppo omogeneo di individui della stessa età in più momenti (studio di selezione);
  • Disegno longitudinale: si prendono gruppi di soggetti (in numero minore rispetto al Cross-Sectional), si decide quali intervalli di tempo andare a considerare si misura in ognuno di quegli intervalli il fenotipo interessato. C'è il rischio che, durante il corso dell'esperimento, alcuni soggetti non si ripresentino alle sedute e alcune manifestazioni fenotipiche possono manifestarsi in modalità diverse a seconda dell'età;
  • Disegno sequenziale: si tratta dell'unione dello studio Cross-Sectional, longitudinale e di coorte. È un metodo di studio particolarmente favorevole poiché consente di avere virtualmente a disposizione un range di età vastissimo.
Genetica del comportamento
All'interno del discorso di sviluppo, la genetica ha un ruolo fondamentale, in particolar modo in riferimento alla genetica del comportamento o comportamentale. Quest'ultima tenta di rispondere alle seguenti domande:
  1. Perché siamo diversi?
  2. Perché i figli assomigliano ai genitori?
  3. Perché i figli degli stessi genitori possono essere diversi?
Alla base di questo discorso c'è un grande interesse verso le differenze tra gli individui e bisogna ancora una volta tener presente l'importanza del fattore ambientale.
Breeding selettivo
Studiando topi da laboratorio, R.C.Tyron mise in evidenza l'esistenza di due tipi di topi: i topi bravi ad uscire da un labirinto e topi meno bravi ad uscire dallo stesso labirinto. Egli divise i topi in base al numero di errori che essi facevano nell'uscire dal labirinto e fece accoppiare topi "intelligenti" con altri topi "intelligenti" e topi meno "intelligenti" con altri topi meno "intelligenti" e scoprì che andando avanti con le generazioni di topi, gli errori diminuivano progressivamente nei topi "intelligenti" e aumentavano progressivamente negli altri. Questo esperimento permise di ipotizzare come possibile causa dell'aumentare/diminuire degli errori dei topi il fattore genetico.
Family studies
Gli studi familiari si basano sull'ipotesi che se due individui legati da un certo grado di parentela vivono nello stesso ambiente, ci si può aspettare una correlazione, per un certo tratto psicologico, che varia a seconda del grado di parentela che intercorre tra loro. Esistono due tipi di studi familiari in questo senso:
  1. Studi gemellari: studiano i gemelli e le loro caratteristiche in comune, avendo essi un grado di parentela di 1.00 .
  2. Studi gemellari adottivi: si riferiscono a coppie di gemelli separati alla nascita e che non condividono geni con gli individui della famiglia adottiva; sono utili per esaminare i fattori ambientali nello studio.
Va precisato che uno studio condotto su coppie di gemelli identici (monozigoti) che condividono lo stesso ambiente non dicono se un certo tratto psicologico dipende da fattori genetici o ambientali. I fattori causali possono dividersi in:
  • Fattori genetici
  • Ambiente condiviso
  • Unici (ambiente unico) e personali
Metodi per valutare le somiglianze tra gemelli
Ci sono due strumenti che ci dicono delle somiglianze/differenze fra gemelli:
  1. Correlazione (da .00 a 1.00)
  2. Dicotomie e grado di concordanza/discordanza
Il primo si riferisce ancora una volta alla correlazione vista in precedenza in termini quantitativi, mentre il secondo ci dice se un certo tratto psicologico è condiviso o meno da entrambi i gemelli in termini qualitativi.
Inoltre, per spiegare l'ereditabilità di un certo tratto psicologico, si usa un'altra variabile, "h2", definita come:
h2 = 2 x ("correlazione tra monozigoti" - "correlazione tra dizigoti")
Formalizzando:
  • Correlazione tra monozigoti: rMZ
  • Correlazione tra dizigoti: rDZ
per cui la formula diventa:
h2 = 2 x ( rMZ - rDZ)
Le influenze ambientali uniche non condivise (Not Shared) "NSE" si calcolano con la formula:
NSE = 1 - rMZ
mentre le influenze ambientali condivise (Shared) "SE" si calcolano con la formula:
SE = 1- (h2 + NSE)
In totale, quindi, si ha che
Fattore genetico + NSE + SE = 1
dove 1 rappresenta il totale delle differenze.
Principi importanti
  1. Canalizzazione: esistono alcuni genotipi la cui manifestazione è scarsamente o per niente influenzata dall'ambiente. Un esempio tipico è quello della lallazione nei neonati sordi, che si manifesta anche se l'ambiente non influisce immediatamente (i neonati sordi non hanno la cognizione dell'abilità "lallare") ma successivamente.
  2. Range di possibilità: il genotipo di cui siamo dotati influenza il numero delle abilità che possiamo imparare e il grado di competenza a cui possiamo svilupparle.
  3. Interazione gene-ambiente: l'ambiente può influire sul fenotipo di un individuo in maniera attiva (se l'ambiante è stato scelto) o passiva (se non è stato scelto). Un altro tipo di influenza è quella evocativa, ovvero un certo stimolo dell'ambiente evoca una certa risposta nel soggetto al fine di bloccarlo o perpetrare la risposta. Le modalità con cui questa interazione agisce dipendono in gran parte dall'età e dal grado di maturazione dell'individuo.
Fonti
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  • Farneti A., Elementi di psicologia dello sviluppo, Carocci, Roma, 1998 (o altro manuale a scelta).
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  • Josselyn M., Lo sviluppo sociale del fanciullo, Firenze, Giunti Barbera 1964.
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